venerdì 26 dicembre 2014

Un Viaggio



    Quando si è giovani le estati sembrano eterne. E quell’estate dell’anno millenovecentosettantuno appena iniziata prometteva una lunga eternità.

        All’imbrunire di una giornata prossima al solstizio, la luce del sole morente tingeva di rosso le alte vetrate del palazzetto della mostra di Brescia. Migliaia di ragazzi assiepati, gli  occhi rivolti all’enorme palco in attesa paziente. Su di esso un ronfare di grandi amplificatori con la spia rossa accesa, come occhi di mostri incatenati. La Fender Stratocaster il basso Fender nero appoggiati alle grandi casse, la batteria color argento. A destra di profilo l’organo Hammond con una tastiera sovrapposta.

        Un grande gong dorato in fondo al palco come sull’entrata di un tempio orientale, misterioso strumento dei riti esoterici della psichedelia. Ha brillato come di luce propria quando ha catturato l’ultimo raggio del sole prima che le ombre rendessero la platea una massa informe e pulsante.

        Allora un suono si generò come dalla terra, sempre più forte, avvolgente, la vibrazione  profonda  di “mi” come di pedale d’organo che roteava e cresceva. Quando il suono raggiunse l’apice fu sopraffatto da un  rombo  di pale d’elicottero. Tutti si volsero verso le vetrate con apprensione, ma fu in quel momento  che un muro di suono si materializzò e tutti furono immobili con gli occhi puntati sui musicisti sul palco. Figure ascetiche immobili al loro strumento, se non per i lunghi capelli agitati da chissà quale vento d'ispirazione

        Intuivo le sonorità di quel brano che mi pareva di conoscere, ma fu solo quando il suono dell’hammond di Richard Wright emerse dall’ultimo accordo e iniziò l’arpeggio inconfondibile che lo riconobbi con certezza. Poi Dave Gilmour appoggiò le limpide note della sua chitarra sul liquido tappeto dell'hammond. Il colpo di cassa di Mason, il basso profondo di Waters come un cuore che pulsava regolare  sul mio diaframma ed io ero rapito in un viaggio attraversavo le distese di Atom Hearth Mother.

                Di ritorno verso casa nella calda notte estiva le sponde del lago di Garda erano piene di vita. Ad un chiosco ci siamo fermati per una fetta d’anguria e una bibita parlando di musica, ancora scossi noi poveri musicanti di provincia. Incuranti della notte che riluceva ancora di stelle ma camminava già verso un nuovo giorno. Il domani poteva attendere. L’estate intorno pulsava densa di promesse ed era lontana ogni tristezza e preoccupazione del futuro. Del resto anch'io suonavo in un gruppo rock.




Note
1. Si parla del concerto dei Pink Floyd a Brescia il 19 giugno del 1971. Come è ovvio le sensazioni descritte sono esaltate dal quel momento irripetibile.Era il primo concerto di un grande Gruppo cui avevo presenziato. Avevo la sensazione di camminare un palmo sopra la terra, convinto di aver assistito ad un avvenimento che avrei ricordato tutta la vita.
2. Quale non è stata l’emozione nel ritrovare tra le pagine di You tube la registrazione (anche se artigianale e imprecisa) di quel concerto che avevo solo nella memoria. Mi ha riportato a quell’estate di tanti anni fa. 





sabato 29 novembre 2014

Sant'Andrea co' la so famèa



             "Ma chi è tuo padre"? Al vecchietto del paese che mi aveva perso di vista durante la crescita rispondevo  “ El Cèncio Molinar”. Per l’usanza dei paese di accorciare e storpiare i nomi mio padre Vincenzo era detto Cèncio. Un po’ me ne vergognavo di quel nome. “Ah!” – riprendeva per collocarmi in un quadro familiare preciso-  “Allora tua madre  l’è la Mariòta dei Andreòti da Palù”. Anche Mariòta non mi piaceva. Era ben più dolce  Maria il nome della Madonna! Ma così era nel paese. Mia mamma Maria era la Mariòta, ed io ero figlio del Cencio Molinàr e della Mariòta.

                La sorella di mia madre di nome era Cecilia ma in famiglia era la zia Cila.  Pure lei come mia madre aveva il nome storpiato e anche lei aveva sposato uno di Mosana di nome Vincenzo, ovviamente detto Cencio. Mia nonna Carmela era donna saggia e arguta e con due Cenci per generi soleva dire: “le mé fiòle le à binà  'nsèma tute le sdràce del Comùn .

                I Andreoti era antica famiglia di Palù, soprannominata così perché da diverse generazioni battezzava il primogenito maschio col nome dell’apostolo, terzo per importanza dopo Pietro e Paolo. Anch’io sono stato battezzato Andrea, pur essendo figlio di una femmina della discendenza Andreòta e sono stato l’ultimo dopo generazioni a portare quel nome.  Non mi hanno mai soprannominato  Dèia, come già chiamavano mio nonno Andrea. Quelle abbreviazioni arcaiche con la mia generazione andavano scomparendo.

                Il trenta novembre, Sant’Andrea, era grande festa per la famiglia dei Andreòti. La campagna riposava sotto la neve, il vino nella cantina era giovane. In quegli anni i granai erano pieni e la rata della vendemmia appena riscossa.

                Tradizione popolare considerava Sant’Andrea il giorno dell’inizio dell’inverno. Sant’Andrea co’ la so famèa, diceva il proverbio. Non so se famèa significasse fama o  una vecchia forma dialettale che sta per famiglia. La famiglia che sant’Andrea  portava con se era la fame e il freddo. C’era poi una terza “f” e sottindendeva la televisione di quel tempo. In quelle lunghe notti d’inverno a letto con le galline e dovere coniugale.

                Ero orgoglioso del nome che mi era stato dato anche perché poco in uso in quegli anni. Della notte di Sant’Andrea conservo un felice ricordo. Rimanevo sveglio fino a tardi, ascoltavo le chiacchiere degli adulti attorno al focolare con castagne e vino caldo. Era già dicembre e presto sarebbe arrivata santa Lùzia  con l’asino e la gerla carica di doni. Ci si accontentava di poco. Gesù bambino portava i doni solo ai bambini ricchi.


Sant'Andrea 1952: Nonno Dèia ed io già pensieroso





martedì 4 novembre 2014

L'ài vist asà.




                  Da ore zappava  il suo campo sotto un sole che dava martellate in testa. Una terra incattivita dalla siccità trattenuta a stento da muri a secco di sassi tondi dell’Avisio.
               “Tolé Gigio, saria bel gavér chi ‘n pal per ‘npontàr  il sol ‘n modo da fermarlo! Cosìta finiréso de zapar tut el camp.”
           Era la moglie che aveva ricevuto questa illuminazione, ispirata forse dal condottiero biblico Giosuè quando fermò il sole per sterminare i nemici. La moglie non si chiamava Gigia, bensì Fabiola, nome quasi nobiliare se non fosse che erano in miseria e con sedici figli da sfamare.
                  Gigio si fermò basito. Sputandosi sulle mani callose e poi chiudendole a pugno fulminò la moglie: “ Ostia!!!L’è già doi ore che se avésa podèst l'avrìa batù giò con doi slatàde!"

                 Di lavoro faceva lo stradino. Aveva uno stipendio fisso e poteva pur mantenere la numerosa famiglia con dignità. Soprattutto pensando a quanti in quei tempi vivevano solo di un pezzo di campagna e facevano fatica a mangiare.
                Tuttavia Gigio amava il gioco. Interi sabati notte e domeniche preso dal gioco a sperperare denari con i suoi compari nelle bettole del paese. Nelle caneve a bere e a giocare a morra fino al mattino. I figli non avevano di che vestirsi. Per frequentare la scuola i pochi vestiti disponibili era necessario scambiarli tra loro. Mentre l’uno andava a scuola, l’altro era costretto a letto o in casa perché non aveva di che coprirsi. 

                Una vita di fatiche anche per la moglie Fabiola che di nobiliare aveva solo il nome. Dar da mangiare ai figli, vestirli con i pochi soldi che rimanevano, lavorare anche la campagna mentre Gigio spesso era preso solo dal gioco e dal bere.

                Logorato dagli anni male spesi Gigio finì al ricovero, finché un giorno s’ammalò. Giunto in fin di vita fu chiesto alla moglie se desiderava riportare il marito al paese, a casa sua, per averlo davanti agli occhi nell’ultima sua ora.  “L’ài ben vist asà”*  - fu la risposta.


*    L'ho visto anche troppe volte
 

sabato 1 novembre 2014

I Armi.

 

Busa dei Armi , Cima dei Armi,
Cima dei Armi bassa
e Campanili dei Armi (da dx a sx)
     





















       
Gli abitanti di San Lorènz in Banale, paese ai piedi del Brenta Meridionale, erano cacciatori formidabili. Quando la caccia era un rito di sopravvivenza e prima che  teorie di cittadini con zaini colorati e bastoni di alluminio passassero su questi sentieri segnati di bianco e rosso.

         Oltre la valle d’Ambiez, dove il loro bestiame pascolava, si spingevano fin nel cuore roccioso del Brenta. Non temevano le misteriose entità che si annidavano nelle vedrette o le sfingi di pietra disegnate sulle pareti dal vagare delle nebbie.

         Per primi hanno esplorato e conosciuto le segrete rughe del Brenta dove le rocce parevano Sfulmini pietrificati.  Inseguendo avventurosamente i camosci sotto le muraglie dei versanti est  giungevano fino a dove un grande circo ghiaioso cosparso di massi,  giaceva ai piedi di grandi pareti e uno spallone difendeva il precipitare delle val Perse.

         Erano conosciuti come  “i Armi”,  gran cacciatori e tra i primi ad affrontare senza timore questi luoghi popolati secondo la credenza da streghe e fantasmi. A loro è stata dedicata una cima della catena centrale del Brenta: la Cima dei Armi.




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Nota: Trovo la caccia inutile, spietata, crudele. Perchè si arroga il diritto di disporre della vita di altri esseri viventi. Quello che descrivo è un mondo atavico dove le leggi della soppravivenza erano impellenti. Mi piace anche la voglia di quel genere di cacciatori di esplorare e conoscere i segreti di ambienti giudicati ostili.


Le Val Perse
La Val Perse